OTTO.
28 Agosto 2018La morte in Mogol, Battisti e David Gnomo
16 Novembre 2018Siamo a Sanremo. Anno 0. Bono Vox è fra gli attesissimi ospiti stranieri.
Sta cantando un classico degli U2, quando decide di scendere dal palco e percorrere il corridoio che separa le platee. Un gesto di vicinanza che il pubblico applaude subito con trasporto ma, a un certo punto, succede l’Impensabile.
La vicinanza diventa l’assurdo. La meraviglia.
Bono Vox percorre lentamente sornione il corridoio, fino a che, in penombra, non si intravede la sagoma di un omone in piedi; la maschera di spalle temporeggia; gli sta indicando il suo posto a sedere. È Mario Merola, icona leggendaria del neomelodico, arrivato perfettamente in ritardo per la serata.
Quando il faro illumina finalmente la scena, la maschera, come emissario inconsapevole di quel buco spazio-temporale verso la quarta dimensione, si sposta verso il buio.
È un sicronismo poetico perfetto: si ritrovano lì faccia a faccia, Bono Vox e Mario Merola.
BONO VOX E MARIO MEROLA.
Quei pochi secondi sono una sintesi parallela della storia dell’umanità.
Bono si ferma; non si capisce bene cosa stia succedendo, chi riconosce chi. Merola è un muro, insormontabile, mani in tasca e atteggiamento sprezzante. Bono gli canta a due millimetri dalla faccia. Passa un attimo; Merola, incitato indirettamente dal pubblico applaude, convinto, anche se mi rimane un sospetto di difensiva ironia iniziale per quell’invasione improvvisa di scena. Sembra di intravedere lampi di O’ Zappatore, da un momento all’altro ti aspetti uno schiaffo.
Bono si inchina. Anche qui non è chiaro chi riverisce chi. Ma è chiaro che è qualcosa che sta avvenendo su un altro livello di coscienza rispetto alle intenzioni.
Pochi secondi.
La tensione si allenta, Merola si gira compiaciuto verso il pubblico. Bono indietreggia qualche passo senza dare le spalle e guandando anche lui in platea.
Sembra un incontro karmico. Trama di un film.
Poesia, surreale, pura.